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Quante donne possono dire di non aver mai subito violenza culturale?

8 marzo 2016

di Chiara Scipioni

Quante donne possono dire di non aver mai subito violenza culturale? Quella violenza sottile che riconosce il maschile come unico genere pienamente titolare di diritti?

Maltrattamenti, violenza sessuale, stalking. Tratta, prostituzione, mutilazioni genitali femminili, matrimoni forzati. Sono molte le forme che la violenza di genere assume quotidianamente e che portano, ogni anno, migliaia di donne a rivolgersi ai Centri antiviolenza: 16.678 solo nel 2014, secondo i dati della Rete nazionale dei Centri antiviolenza D.i.re. Una donna su tre, in Italia, l’ha subita almeno una volta nella vita, vale a dire 6 milioni e 788 mila donne.

Ma quante donne possono dichiarare di non avere mai subito un’altra forma di violenza, di cui destinatarie esclusive siamo sempre noi, e che è agita quotidianamente dagli uomini? Si tratta di quella violenza sottile, autorizzata da una cultura e una società permeate dal costante riconoscimento di un solo genere, quello maschile, come soggetto pienamente titolare di diritti. 

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Molteplici sono le situazioni e i contesti in cui le donne subiscono una compressione di diritti. La causa risiede nella disparità tra i generi, nell’insieme di divieti, aspettative e obblighi che derivano da ciò che ci si aspetta dalle donne, sia individualmente che nella relazione con gli uomini, storicamente e culturalmente. E nessuna donna, presumibilmente, può dirsi libera da questa violenza. Ancora oggi, donne che scelgono di non essere madri sono considerate fuori dall’ordinario, donne a metà, snaturate. Donne che scelgono di formarsi e sono qualificate, capaci e brillanti, a parità di mansione e incarico professionale guadagnano di meno (intorno al 7,3%) dei colleghi uomini. Donne che vogliono attraversare liberamente le strade delle città in cui vivono sono destinatarie, giorno e notte, di occhiate, fischi, commenti che, inesorabilmente, ne accompagnano il passaggio. Non richiesti, non graditi, volgari, ma che appaiono inevitabili.

Agiamo tutte e tutti dentro una cultura che, trascurando le sfumature che gli uomini possono esprimere con la propria individualità, propone costantemente un modello in cui il maschio virile ha il preciso compito di tutelare i soggetti deboli, a lui subordinati, ed è, per natura, predatore, quindi violento. Da ciò discende anche la legittimazione di questi comportamenti e attitudini, che vengono acquisiti socialmente come “normali”.
La stessa cultura costruisce il genere femminile in contrapposizione a quello maschile, caratterizzandolo in termini di debolezza e subordinazione. Tutto ciò si traduce nella riduzione dello spazio a disposizione per i desideri, la volontà e le potenzialità delle donne. Si verifica non solo nelle relazioni di coppia, ma nella società intera, proprio a causa del predominio che gli uomini esercitano nella sfera pubblica. La violenza di cui parliamo possiamo definirla strutturale: la vita pubblica e quella privata tendono entrambe alla rimozione di un femminile portatore di diritti ed espressione di libertà e soggettività. Consentire alle donne di occupare, pienamente e serenamente, tanto lo spazio pubblico quanto di quello privato, senza rischiare minacce, aggressioni e discriminazioni, dovrebbe essere priorità sociale prima ancora che governativa. La questione fondamentale non è – e non può essere – quella della tutela delle donne attraverso la riduzione del loro diritto all’autodeterminazione, ma lo sviluppo di azioni che ne rafforzino la libertà, responsabilizzando gli uomini e favorendo una cultura del rispetto dell’autonomia e della dignità femminile. Per evitare il consolidarsi di stereotipi nelle generazioni future, è fondamentale anche il rafforzamento delle azioni di prevenzione, nelle scuole e in tutti i contesti di aggregazione giovanile.

Gli interventi in favore delle donne, volti a sradicare la violenza di genere a partire dalla rimozione della cultura che la alimenta, non possono essere frammentari: a un fenomeno strutturale si deve necessariamente rispondere coinvolgendo l’intera società e investendo risorse nella prevenzione e nelle azioni di contrasto. Anche gli interventi legislativi incidono inevitabilmente nel rafforzamento o nell’abbattimento della cultura dominante: il percorso per il pieno riconoscimento dei diritti delle donne ha già segnato, in Italia, il raggiungimento di molti traguardi: la qualificazione giuridica del reato di violenza sessuale come delitto contro la persona, l’abolizione del delitto d’onore, l’introduzione del reato di stalking, la ratifica della Convenzione di Istanbul. Tutte conquiste da attribuire al movimento delle donne che, inesorabile, continua a lottare per colmare i millenni di assenzache caratterizzano la storia e che hanno alimentato la compressione dei nostri diritti.

Esserci, e occupare pienamente lo spazio che è nostro, è la prima risposta che vogliamo mettere in campo nella lotta alla violenza nei confronti delle donne.

http://www.direcontrolaviolenza.it/wp-content/uploads/2015/11/Report_dati-2014.pdf
http://www.istat.it/it/archivio/161716


Focus sul tema

di Laura Grifi

L’esperienza dei Centri Antiviolenza e le principali disposizioni nazionali e internazionali in materia di violenza di genere, affermano che la violenza ha matrice culturale e dipende dai rapporti storicamente diseguali tra i sessi. La discriminazione delle donne alimenta la violenza nei confronti delle stesse e viceversa. Pertanto, una delle misure di prevenzione necessarie è quella di promuovere un cambiamento culturale che elimini pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli di donne e uomini. La cultura quindi può legittimare o dissuadere dal commettere un atto violento. La nostra cultura è ancora intrisa di stereotipi e pregiudizi che relegano la donna in una posizione subordinata?

Non abbiamo trovato un’indagine statistica, che valuti a tutto tondo l’incidenza del sessismo nella cultura italiana, considerando in maniera esaustiva i valori, il linguaggio, le norme, gli stereotipi e le pratiche che perpetriamo e tramandiamo. I pochi dati a nostra disposizione ci dicono che le donne sono meno indipendenti dal punto di vista economico e meno rappresentante nelle sfere decisionali della società. Donne e uomini ritengono che il genere femminile sia più discriminato e più spesso si trovi costretto a rinunciare alle proprie aspirazioni e ai propri desideri. In Italia, le donne sono presenti negli organi istituzionali solo per un terzo; nessuna donna è mai stata eletta Presidente del Consiglio o della Repubblica. Riguardo all’occupazione, le donne lavorano meno, sono pagate la metà e ricoprono mansioni di livello più basso. Il 40% della popolazione ritiene ancora che la donna avrebbe potuto evitare la violenza subita. Anche le statistiche confermano che c’è ancora molto lavoro da fare.

TabGenderGap2015_2

GLOBAL GENDER GAP REPORT 2015

L’Italia si posiziona al 41° posto su 145 paesi per quanto riguarda l’uguaglianza di genere. Quattro le dimensioni analizzate: salute, istruzione, partecipazione politica ed economica. I valori vanno da 0 (disuguaglianza di genere) a 1 (uguaglianza di genere).

STEREOTIPI, RINUNCE E DISCRIMINAZIONI DI GENERE

(Istat, 2011)
La ricerca sintetizza che per la maggioranza della popolazione (57,7%) la situazione degli uomini nel nostro Paese è migliore di quella delle donne: lo pensano le donne (64,6% delle intervistate) più degli uomini (il 50,5%). Per quattro persone su dieci (43,7%) la donna è vittima di discriminazioni. Il 44,1% delle donne, contro il 19,9% degli uomini, ha dovuto fare qualche rinuncia in ambito lavorativo a causa d’impegni e responsabilità familiari o per volere dei propri familiari.

 

ImmagineTestataScarica qui il numero di marzo 2016

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fatelestreghe@associazionerising.org

 

 

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Tags: Centro AntiviolenzaChiara ScipioniFATE le STREGHEglobal gender gap reportistatLaura Grifimagazineviolenza culturaleviolenza strutturale

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